OSSERVATORIO BALKAN ROUTE

30 settembre 2016

Osservatorio Balkan Route – Settembre 2016

di Lorenzo Scalchi e Davor Marinkovic

La Balkan route è sempre aperta, nonostante i muri costruiti dagli Stati (veri o di propaganda). Nel precedente rapporto ci siamo focalizzati sulla Serbia, divenuta oggi la scena principale dei problemi legati al transito terrestre dei migranti: proteste sociali, tensioni alle frontiere, criticità dell’accoglienza, emersione di xenofobia e nuovi nazionalismi. Tuttavia, è semplificatorio descrivere questi fenomeni senza considerare che chi vive a Belgrado, a Dimitrovgrad o in Voivodina da decenni conosce continue emigrazioni e immigrazioni. Poiché i dati di settembre indicano un leggero calo della mobilità alle frontiere di tutti gli Stati, a parte la Grecia, ci permettiamo di dedicare più spazio alle questioni della permanenza dei migranti sui territori, focalizzandoci ancora sulla Serbia. L’accoglienza, infatti, non è solo un sistema istituzionale. Si tratta soprattutto di interazioni umane: tra migranti e locali.

Una rotta sempre aperta

Il secondo rapporto di Ospiti in Arrivo (dopo quello di agosto) analizza il periodo tra il 22 agosto e il 21 settembre 2016. Si conferma che la Balkan route è costantemente aperta («The Guardian», 30 agosto). Come si può notare dal grafico sottostante, che si basa su dati UNHCR, tra luglio e settembre i numeri della mobilità alle frontiere non variano di molto. Mentre in Macedonia, in Croazia e in Slovenia i flussi in entrata del periodo sopracitato restano a zero, negli altri Stati si verifica una lieve riduzione dei numeri medi giornalieri: 200 persone in Serbia (-23% rispetto al mese precedente), 35 in Ungheria (-12,5%) e 113 in Austria (-17%). La Grecia, invece, registrerebbe secondo l’agenzia ONU un aumento: 166 al giorno (+24%).

 

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Questa fotografia della rotta ci permette di riaffermare che le persone continuano a muoversi nonostante le restrizioni e i controlli alle frontiere. Ciò che, tuttavia, i dati UNHCR non indicano sono altre modalità di transito oltre alle entrate ufficialmente registrate. Su queste, formuliamo quattro ipotesi. (1) Vi sono numerose rotte nascoste dalla Grecia all’Austria (attraverso Macedonia, Ungheria Croazia e Slovenia). (2) La rotta dei Balcani coinvolge in maniera significativa la Bulgaria, anche se non abbiamo un registro UNHCR sugli arrivi giornalieri. L’importanza di queste rotte “invisibili” è registrata da alcuni media nazionali, come il giornale serbo «Blic» (8 settembre), che racconta come nei primi cinque giorni di settembre 1.044 migranti provenienti dal confine meridionale (bulgaro e macedone) siano stati bloccati dalle autorità serbe. La testata «Novosti» (14 settembre) fornisce una nuova informazione: chi non riesce a entrare in Croazia o Ungheria tenta anche la via della Romania. (3) I migranti già ospitati in Ungheria riescono a riprendere il cammino, altrimenti sarebbe difficile da spiegare la media di oltre 100 arrivi alle frontiere meridionali austriache. (4) Per spiegare la medesima sproporzione si può anche supporre che l’Ungheria stimi al ribasso i numeri in entrata.

 

Se questo è un quadro generale del fenomeno migratorio lungo i Balcani, vogliamo ora descrivere – attraverso un’analisi della stampa – alcuni avvenimenti e aneddoti che riguardano l’altra faccia della migrazione: non la mobilità, ma la permanenza, cioè l’interazione tra popolazioni locali e stranieri. Per meglio affrontare questo tema, abbiamo pensato di avvicinarci alle notizie locali. Di che cosa si parla in Serbia, nel dibattito pubblico, sui giornali? Notiamo, infatti, che le fonti giornalistiche occidentali sulla Balkan route trattano, per la maggior parte, delle condizioni dei migranti – di transito o di attesa – o delle politiche dei governi o dell’UE. Uno spazio ristrettissimo è, invece, dedicato alle opinioni, alle sensazioni e alle storie delle popolazioni locali, che vivono per primi gli effetti delle circolazioni migratorie. In questo rapporto, abbiamo preparato una rassegna stampa di 29 articoli, tradotti e sintetizzati, da testate serbe. Oltre a questi, la solita analisi della stampa europea e italiana.

Due sono i grandi temi maggiormente affrontati dalle notizie di settembre sulle rotte balcaniche.

 1. Aspettare, aspettare, aspettare

Primo tema: l’attesa. Attendere alle frontiere significa spesso vivere nelle jungles, chiamate così per via della loro formazione spontanea ai lati delle strade, tra le boscaglie, separate dai centri abitati. Qui si concentrano misere condizioni di vita accompagnate da violenze e scontri con la polizia. Oggi gli emblemi dell’attesa nei Balcani sono i campi di Kelebjia e Horgoš, nella provincia di Subotica, lungo il confine settentrionale con l’Ungheria. I giornali serbi, a differenza di quelli francesi, italiani o inglesi, testimoniano come anche la provincia di Šid (nord-ovest, nei pressi del confine con la Croazia) la pressione migratoria sia particolarmente elevata: ci sono molti campi profughi, forse più che a Subotica.

La situazione ai confini di Kelebjia e Horgoš è descritta dal giornalista francese Philippe Bertinchamps in un articolo per «Mediapart» (2 settembre): solo 30 persone al giorno sono autorizzate a entrare in Ungheria (15 a Kelebjia e 15 a Horgoš). La fila è dunque molto lunga, sia per le famiglie (che hanno una priorità) che per migranti soli (i quali tentano spesso vie illegali). “Nascosti dietro gli occhiali da sole osservano i campi in Serbia”: sono i poliziotti ungheresi disposti all’interno di 52 container climatizzati.

Sul confine meridionale con la Bulgaria il quotidiano «Blic» (16 settembre) racconta la presenza 7.500 migranti che premono per entrare in Serbia dal nei pressi di Negotin e Dimitrovgrad. Si riportano le affermazioni del rappresentante delle forze armate serbe, Krivokapić: anche se la situazione è sotto controllo, perché i migranti, quando vedono l’esercito, rinunciano ad attraversare il confine, egli si dichiara pronto a innalzare barriere se gli venisse ordinato.

La tensione, dunque, è molto alta: la pressione migratoria ai confini con la UE si trasforma in un dibattito sull’ordine pubblico e sulle misure di sicurezza per la popolazione. A questo proposito, la testata «Novosti» (14 settembre) riporta che il governo serbo farà presto sapere se attuerà il modello ungherese di costruzione di muri e recinzioni di filo spinato. Questo perché – riferisce l’articolo Dižemo ogradu zbog izbeglica?! – al momento in Serbia ci sono circa 4.000 persone nei centri ufficiali e tra le 1.000 e 2.000 in alloggi privati, boschi e campi informali al confine ungherese. Se i numeri dovessero aumentare sarebbe necessario aprire nuovi campi. Precisamente a: Bujanovac, Vranje, Sombor, Kikinda, Dimitrovgrad e Pirot con una capacità totale di 1.000 posti.

Questo significa – lo scrive anche «Vesti» (16 luglio) – che in questi mesi il dibattito pubblico serbo s’è modificato: il problema non è tanto la gestione dei migranti in transito ma l’organizzazione di un sistema d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. Da terra di transito a terra d’accoglienza, quindi. Infatti, i dati UNHCR sulle richieste d’asilo (SERBIA UPDATE, 22-25 September 2016) (le stime sono lievemente inferiori a quelle riportate da «Novosti») indicano che le presenze di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in transito continuano a salire: dai 1.000 di inizio maggio, ai 5.000 attuali. Di questi l’86% (4.309) è beneficiario di servizi governativi: 1.560 sono accolti in cinque centri d’accoglienza e 2.749 nei Refugee Aid Points/Reception Centre. Il restante 14% (702) sono accampati a Belgrado o al confine con l’Ungheria. Il 45% sono uomini, il 18% donne e il 37% bambini. Il 53% sono afghani, il 14% siriani, il 10% pakistani, l’8% iracheni e l’11% di altri paesi. Ma è bene ricordare che la Serbia, oltre agli attuali richiedenti asilo, ha affrontato altre circolazioni migratorie in entrata: rifugiati da Croazia e Bosnia, sfollati interni, sfollati dal Kosovo, persone ritornate dall’Europa occidentale. Il giornale «Vesti» del 20 giugno riporta, a questo proposito, alcuni dati dell’UNHCR: negli anni novanta circa 650.000 persone hanno lasciato le loro case per fuggire in Serbia e altre 217.000 hanno fatto lo stesso in Kosovo. Quelle persone oggi rappresentano il 10% della popolazione. Alcune di loro, a distanza di anni, vivono ancora nei campi profughi – dichiara il Commissario per sfollati e migranti Vladimir Cucić. Attualmente esistono ancora 9 campi che ospitano 347 persone e che si prevede verranno chiusi entro l’anno, tranne quello di Bujanovac che ne tiene 90. Sintetizzando: il contesto in cui s’iscrive l’attuale immigrazione è complesso.

Per introdurre il secondo tema, proponiamo la lettura del brevissimo appello apparso su «Kurir» (24 luglio). Si tratta della richiesta di un migrante pakistano che si rivolge ai leader e ai cittadini europei: chiede di aprire le frontiere e trattare umanamente i migranti perché è consapevole che l’economia serba non può sostenere per un lungo periodo la presenza di migliaia di migranti.

2. Dopo i migranti: cosa resta?

Secondo tema: l’interazione dei migranti con i locali, nei diversi territori. La successiva analisi del dibattito in Serbia si basa su molteplici punti di vista. Purtroppo, registriamo molti articoli di giornali che rilevano punti di vista respingenti, spaventati, disapprovanti. Ma cercheremo di formulare anche delle riflessioni più profonde, per approfondire meglio una questione: quali sensazioni restano sul territorio dopo il passaggio dei migranti?

I francesi questa domanda se la stanno ponendo da mesi: nel corso di questo settembre «Libération» ha lavorato molto su Calais. Nel primo articolo (2 settembre) Xavier Delebarre, direttore della direzione strade della provincia di Calais, racconta come le sue squadre operative devono affrontare gli imbottigliamenti creati dai migranti: essi, infatti, rallenterebbero i TIR– per salirci sopra – con qualsiasi mezzo (ostacoli, incendi ecc.). Interviene anche il presidente della Fédération des commerces di Calais, Frédéric Van Gansbeke, che chiede una data precisa di smantellamento della jungle (2 settembre). Il problema denunciato non è solo il pericolo di una paralisi del traffico stradale e, di conseguenza, una paralisi economica. Né è solo il costo economico per l’ordine pubblico: “Io sono d’accordo con loro [le associazioni umanitarie] a dire che sono i migranti che soffrono maggiormente. Ma i migranti sono di passaggio. La traccia lasciata a Calasi da questa bidonville è, invece, indelebile”. La protesta – si afferma – non è, dunque, anti-migranti ma anti-governo. Il primo imputato, qui, è lo Stato. Il 5 settembre, il giornale racconta una giornata di manifestazioni sull’autostrada: sono alcuni abitanti della zona con la maglietta “I love Calais”. Per chi volesse informazioni in italiano, proponiamo il reportage di «Internazionale», sempre tratto da «Libération» del 5 settembre.

Lungo la Balkan, l’opinione dei cittadini sulle recenti migrazioni sarà al centro di due importanti eventi politici. Il primo avrà luogo il 2 ottobre in Ungheria: un referendum il cui quesito verte sull’accettazione o meno di 1.294 richiedenti asilo, assegnati a Budapest secondo il programma europeo di ricollocamento: “Volete voi, sì o no, che l’UE decreti un ricollocamento obbligatorio di cittadini non ungheresi senza il consenso del parlamento?”. Il governo Orbàn è deciso: solo gli ungheresi possono decidere in Ungheria. In questi link alcuni approfondimenti: «Osservatorio Balcani e Caucaso» (28 settembre) e «l’Espresso» (20 settembre). La seconda sarà il voto in Austria al ballottaggio per eleggere il nuovo presidente: sempre il 2 ottobre. Al fine di ottenere consensi, il 15 settembre si è saputo che l’esecutivo (socialdemocratici e popolari), guidato da Kristian Kern, ha pronto un provvedimento d’emergenza che prevede lo stop, arrivati a un certo numero (probabilmente 37.500), dell’accettazione delle richieste d’asilo, il respingimento di chi arriva e lo schieramento di oltre 2.000 soldati ai confini («Corriere della Sera», 16 settembre)

Tornando in Serbia, uno dei dibattiti più presenti sulla stampa nazionale è sulla protezione: cioè l’innalzamento di nuovi muri. Si dice, infatti, che il premier ungherese Orbàn, oltre a potenziare il muro al confine con la Serbia («Balkan Insight»), è anche disposto ad aiutare economicamente Serbia, Bulgaria e Macedonia a difendere i loro confini meridionali («Informer», 16 settembre). «Novosti» (17 settembre) scrive che un grande ostacolo al lavoro di controllo delle forze dell’ordine sono i trafficanti, che sarebbero in maggioranza belgradesi e collegati alla piccola criminalità di confine. Il giornale «Blic», per affrontare il fenomeno degli smugglers, si focalizza più sugli arresti dei trafficanti: a Mirijevo (25 agosto) e nella provincia di Vladičin Han (15 settembre).

Proseguiamo con il tema dell’interazione tra locali e migranti in Serbia. 5 dei 29 articoli della rassegna fanno riferimento a violenze. Sono violenze di locali contro migranti e viceversa: «Blic» (24 agosto) riporta che le forze dell’ordine stanziate a Pirot (sud-est) hanno arrestato un cacciatore accusato di aver ucciso un migrante afgano di 20 anni che stava attraversando il bosco insieme a 6 compagni. Ma la stampa serba punta molto a mettere in luce anche le violenze causate dai migranti stessi. «Blic» (23 agosto): Subotica, un ragazzino ha riportato dei tagli alla testa dopo che un migrante lo ha aggredito con un taglierino. Il ragazzino e suo fratello avrebbero voluto aiutare l’imprevedibile aggressore e altri due migranti a trovare un rifugio dove passare la notte. La madre dei due ragazzi ha scritto un appello su Facebook: “non aiutiamo gli ingrati migranti che minacciano i nostri figli”. «Novosti» (15 settembre), articolo U Šidu strah zbog migranata, kao da je policijski čas!: a Vašice (provincia di Šid), a causa di un’aggressione a un abitante da parte di un migrante, la popolazione della provincia è preoccupata per la presenza di numerosi campi profughi – uno alla stazione ferroviaria del capoluogo, l’altro ad Adaševci. La madre del giovane aggredito, Gordana Hrbač, afferma che la paura si è infiltrata nella provincia – attraversata, si scrive, da 750.000 migranti all’anno – e per questo alcuni cittadini stanno preparando una petizione per spostare i campi di accoglienza.

Ma ecco che, a questi elementi di paura, nello stesso articolo si cerca di comprendere la complessità e l’autore decide di riportare alcune importanti parole della stessa Gordana Hrbač: “Non è facile neanche per i migranti, […] la gente di Šid lo sa bene: anche noi abbiamo dovuto lasciare le nostre case” e cita in proverbio “chi si traferisce, patisce”. Le ultime tre righe dell’articolo: nel vicino paesino di Sot, dove c’è un altro campo profughi, “i migranti hanno tagliato l’erba attorno alla chiesa ortodossa, aiutano e giocano a calcio con i nostri bambini tutti i giorni”.

 

Dunque, cosa resta alla fine, sul territorio, al passaggio dei migranti?

Proviamo a rispondere andando in Slovenia, grazie a «Osservatorio Balcani» (19 settembre). È da poco uscito Na Begu (In fuga – Esodo moderno /2005-2016/: in viaggio con i migranti verso le terre promesse) il libro del giornalista Boštjan Videmšek. L’autore dell’articolo, Božidar Stanišić, propone una riflessione su migranti e media, attraverso un commento e una lettera rivolta allo stesso Videmšek: “Oggigiorno la gente comune non crede alle persone come lei, né sono disposti a farlo molti di coloro che si credono appartenenti a varie caste elitarie, in primis quella politica, ma non bisogna dimenticare nemmeno quella culturale. Se fosse altrimenti, non ci sarebbe stato questo libro, nemmeno ci sarebbero state le fotografie del suo collega Jure Eržen. […] In questo libro, lei ha dato voce agli ultimi in modo che possano dire cosa ne pensano di questa che non è solo la loro tragedia. Semplicemente, è anche una nostra tragedia. Non è tragico (seppur in un certo senso anche comico) il fatto che gli europei del XXI secolo, che hanno a disposizione tutti i possibili mezzi informatici, rifiutino di vedere la tragedia altrui?”.

Ed ecco alcuni frammenti tratti dal libro di Videmšek:

Quando sui confini sloveni comparvero i primi rifugiati, il paese si trovò in preda all’emergenza. Si accesero tutti gli allarmi possibili. Era evidente che i rappresentanti del potere erano smarriti, addirittura scioccati. Nelle loro parole, nei loro gesti e nel loro agire si avvertivano l’incompetenza, l’ignoranza della problematica, il deficit di empatia e una quantità quasi incredibile di opportunismo politico, sicché – invece di intraprendere azioni effettive – lasciarono che l’opinione pubblica plasmasse l’agenda politica.

I media, o almeno gran parte di essi, si fecero complici dell’escalation (oltre che della genesi) di quel populismo estremo che è l’ideologia dominante della nostra epoca e società. I giornalisti sloveni domandavano ai rifugiati siriani, in fuga verso l’Europa ormai da settimane, o persino da mesi, perché non se n’erano rimasti a casa, dove potevano, ad esempio, imbracciare le armi per combattere contro gli jihadisti dello Stato islamico. Ci si chiedeva perché se ne fuggivano tutti, come se non fossero consapevoli del fatto che nemmeno “da noi“ la vita era un paradiso. Nessuno di quei giornalisti era mai stato in Siria né in qualsiasi altra zona di guerra. Nessuno di loro né tantomeno nessuno dei politici e degli analisti dell’opinione pubblica aveva mai sperimentato gli orrori della guerra sulla propria pelle privilegiata. Quando il 13 novembre del 2015 i terroristi attaccarono Parigi, furono quegli stessi media e politici a sostenere, nel tentativo di demonizzare e deumanizzare i rifugiati, che “siamo in guerra“, senza avere la più pallida idea di che cosa fosse la guerra. La parola è arma e mezzo della guerra.

(…)

Durante la grande “azione di pulizia“, le principali città furono ripulite dai migranti e rifugiati. Quelli che erano riusciti ad evitare il carcere, l’internamento nei centri di detenzione e la deportazione si erano ritirati verso le periferie o nei luoghi dai quali era possibile, almeno teoricamente, tentare la fuga dal paese. Come ad esempio Patrasso, città portuale che stava diventando la capitale dei migranti in quella parte d’Europa, mentre nel Novecento fu testimone del massiccio esodo di greci in fuga dal proprio paese. A causa di povertà, fascismo, giunta militare, guerra civile…

(Frammenti tradotti dallo sloveno al serbo-croato da B. Stanišić e succesivamente in italiano da I. Draganić).

 

[Fotografia di Lorenzo Scalchi]