Osservatorio Balkan Route – Ottobre 2016
di Lorenzo Scalchi
Ritorniamo a guardare la rotta dei Balcani da una prospettiva più ampia. La circolazione migratoria è costante, dalla Grecia all’Austria, e sembra ovunque causare movimenti caotici e tensioni di notevole intensità e imprevedibilità. Oltre a un’analisi dell’attualità, decidiamo di impostare questo rapporto non sulla narrazione del caos ma sull’analisi degli elementi strutturali, dei fatti che, nel loro ripetersi, sono indicatori del mondo che viviamo e che “ci” viene incontro, definendosi come una Babele cosmopolita.
UN’ISTANTANEA: PIU’ ARRIVI IN AUSTRIA CHE IN GRECIA
Questo terzo rapporto di Ospiti in Arrivo fotografa, come da due mesi a questa parte, una rotta balcanica non solo sempre aperta, ma di costante intensità. Dall’analisi delle statistiche ufficiali (dati UNHCR), visibili dal grafico sottostante, si può notare una sostanziale invarianza dei flussi in entrata in Serbia, Ungheria e Austria (Macedonia, Croazia e Slovenia continuano a dichiarare 0 arrivi giornalieri, anche se alcune fonti hanno registrato, in questi ultimi mesi, una circolazione migratoria considerevole dalla Serbia alla Croazia) rispetto al mese precedente: in media ogni giorno arrivano 200 persone in Serbia (dato sempre molto approssimativo e uguale a quello del mese precedente), 34 in Ungheria (-2,9% rispetto al mese precedente) e 104 in Austria (-8%). L’informazione più sorprendente riguarda, però, la Grecia: con 101 arrivi medi giornalieri, non solo il flusso diminuisce in maniera considerevole (-39%) rispetto a settembre, ma per la prima volta si registra un numero di arrivi minore in Grecia, primo Stato della rotta, che in Austria. Un’ultima osservazione sulle statistiche: la Serbia continua a rappresentare il territorio con più arrivi in assoluto e lo Stato che maggiormente deve affrontare la problematica gestione dell’accoglienza (il gap tra numero di entrate e numero uscite dallo stato è notevole).

Arrivi giornalieri dal 27 settembre al 27 ottobre (dati UNHCR).
UNA PANORAMICA: TRA GRECIA E SLOVENIA SI TROVA CALAIS
Il sito di Les Courrier des Balkans (25 ottobre) propone un rapido aggiornamento per ogni Stato. Rielaborando queste informazioni e confrontandole con quelle di altre testate giornalistiche internazionali, ecco una panoramica della situazione:
Sulla Grecia, un articolo sintetico apparso su Osservatorio Balcani e Caucaso (10 ottobre) tratta della situazione di stallo e frustrazione di molti migranti, bloccati da mesi per aspettare gli esiti delle procedure di ricollocamento che dovrebbero permettere il trasferimento delle persone in altri Stati europei. Lunghe attese e condizioni di vita estremamente precarie (sia a Lesbo, che a Chios, che nella Grecia continentale) provocano tensioni nella popolazione migrante e nella popolazione locale.
In Macedonia a causa del numero crescente di migranti alle frontiere (respinti a Sud dai macedoni e, a nord, rimandati in Macedonia dalla polizia serba), il governo sta pensando di prolungare lo stato d’emergenza fino al 30 giungo del 2017 (Les Courrier des Balkans, 25 ottobre).
In Bulgaria, rilevanti sono le recenti proteste di movimenti ultra-nazionalistici. Balkan Insight (21 ottobre) riporta le istanze presentate dai manifestanti a Sofia, Burgas, Yambol e Varna: vogliono l’esclusione totale dei migranti dal territorio nazionale, la chiusura di tutti i centri d’accoglienza e il blocco di ogni finanziamento pubblico per aiuti o programmi di supporto. La parola d’ordine è “difendere” (i confini, i diritti dei cittadini bulgari, l’identità). Nell’articolo si riporta che chi ha manifestato appartiene ai seguenti movimenti: il National Resistance Movement, collegato al movimento internazionale della rete politica neo-nazista (protagonista, tra l’altro, di un discusso evento di ricordo in occasione dell’anniversario della “Notte dei lunghi coltelli”, l’epurazione voluta da Hitler contro i “nemici del regime”, avvenuta in Germania nel 1934) e il Blood and Honour e i Civil Squadrons for the Protection of Women and Faith (letteralmente: le Squadre Civili per la Protezione delle Donne e della Fede”), fondato da Petar Nizamov, il “patriota” autoproclamtosi “cacciatore di migranti”, che, circa sei mesi fa, aveva trattenuto con la violenza tre migranti afghani. Per ques’atto illegale Nizamov fu arrestato, poi messo agli arresti domiciliari e, infine, rilasciato. Queste esperienze in carcere causano l’emergere di un più radicale attivismo anti-migranti di matrice nazionalistica. Attualmente i sopracitati movimenti sono inseriti anche nel movimento nazionalista internazionale Fortress Europe della tedesca Tatiana Festerling. È importante ricordare che, sebbene il fenomeno dei “cacciatori di migranti” si sia sviluppato nell’ultimo anno, la formazione dei partiti nazionalistici della Bulgaria è precedente. Tuttavia, in soli due anni, per la crisi migratoria e gli attentati terrostici di matrice islamica in Europa, la coalizione di estrema destra ha realizzato un’ascesa notevole: dai margini della vita politica nazionale ad attore chiave nel governo.
Riportiamo, inoltre, una notizia riguardante un’area poco monitorata: la frontiera bulgara con la Romania. 17 migranti siriani (di cui 6 minori) sono stati arrestati il 1 ottobre dalla polizia romena e rimandanti in Bulgaria. Hanno spiegato di voler raggiungere l’Europa occidentale. Intenti simili a quelli di un altro gruppo di migranti trovati in Romania dopo essere stati esplusi dalla Serbia. L’itineario romeno si sta sempre più strutturando come « rotta balcanica alternativa » (Le Courrier des Balkans, 25 ottobre).
Tra tutti gli Stati balcanici, la Serbia resta la scena-chiave per comprendere le maggiori tensioni sociali, politiche e diplomatiche che riguardano il fenomeno migratorio sulle rotte terrestri. Questo Stato, infatti, affronta da mesi notevoli problematiche di ordine pubblico, emergenza umanitaria e legate all’accoglienza dei richiedenti asilo (a questo proposito si consiglia la lettura del primo e secondo rapporto di Ospiti in Arrivo). La peculiare pressione migratoria, di oltre 200 arrivi giornalieri alle frontiere meridionali (dati UNHCR) e di sole 40 uscite in media verso l’Ungheria, ha creato l’ormai noto “imbuto”. Questa situazione è poi aggravata dalle resistenze di Croazia e Slovenia, paesi interessati a mantenere chiusa la rotta Belgrado a Zagabria. Questa via, tuttavia, è sempre più frequentata e sempre più persone tentano il passaggio in Croazia. La Serbia è anche al centro di una tensione politico-diplomatica con gli altri Stati dell’area balcanica e, soprattutto, con l’Unione Europea. Anche se esposta a movimenti d’immigrazione e d’emigrazione da decenni, movimenti importanti soprattutto nelle zone frontaliere, il sistema di accoglienza a richiedenti asilo e rifugiati resta in grave difficoltà. Come si leggerà tra qualche giorno in questo sito – nel reportage della missione in Serbia di Ospiti in Arrivo – non solo il sistema d’accoglienza riscuote sempre più critiche da parte di migranti e attivisti, ma l’emergenza umana e le tensioni sociali nelle province di Sid e Subotica stanno sempre più irrigidendo le relazioni internazionali con l’Europa. Infatti, il presidente serbo Tomislav Nikolić, ha dichiarato “la Serbia sta per chiudere le sue frontiere ai migranti e ai rifugiati se i paesi dell’Unione Europea non li accettano” (Le Courrier des Balkans, 3 ottobre). Come abbiamo scritto nei mesi scorsi, l’idea di costruire un muro lungo le frontiere con la Macedonia e la Bulgaria resta una possibilità aperta (il presidente ungherese Orbàn promuove da mesi una “cordata” di Stati per finanziare nuovi muri in tutti i confini dell’Europa orientale). Aspettando il reportage sul campo, citiamo un approfondimento d’attualità sulle continue tensioni sociali e politiche tra crisi migratoria, ragion di Stato e nuove emergenze nazionalistiche: un articolo sui sempre più frequenti insulti nazionalisti e minacce di morte ai giornalisti che criticano il governo (Osservatorio Balcani e Caucaso, 30 settembre).
In Ungheria, il 2 ottobre è stato il giorno del noto referendum ungherese. Il governo Orbàn ha chiamato i cittadini a votare su un provvedimento europeo all’interno del programma delle quote di ricollocamento dei migranti. Secondo questo piano, l’Ungheria dovrebbe ospitare 1.294 richiedenti asilo sbarcati in Italia e in Grecia. Il quesito referendario era il seguente: “Volete che l’Unione europea imponga l’insediamento forzato di cittadini non ungheresi sul territorio nazionale senza il consenso del Parlamento?”. Il risultato del voto era scontato: il “no” è stato quasi plebiscitario, ma inaspettato, invece, è stato il non raggiungimento del quorum necessario per la validità legale del voto. Dunque, il paese resta in un limbo ideologico. Ma per comprendere meglio la situazione politica interna, consigliamo questo articolo sulla campagna nazionalistica e fortemente critica nei confronti dell’Unione Europea, promossa dal premier Viktor Orbàn (Osservatorio Balcani e Caucaso, 28 settembre).
In Slovenia e in Croazia, il fenomeno delle migrazioni è un enigma. Se l’UNHCR continua a registrare zero arrivi su entrambi i confini (serbo-croato e croato-sloveno), alcune fonti – che di seguito riportiamo – dichiarano l’esistenza di flussi costanti in uscita dalla Serbia verso Zagabria. Questo avrebbe allarmato anche la Slovenia, portando alla costruzione di un nuovo muro al confine con la Croazia (Balkan Insight, 24 ottobre). “27,5 km per prevenire ondate migratorie come quelle verificatesi nell’inverno del 2015” (periodo in cui fu installato un primo muro, risultato efficace non tanto per contenere le persone, ma per uccidere diversi esemplari di animali selvatici), afferma il Ministro dell’Interno della Slovenia, che continua: “Queste misure supportano la polizia per un’effettiva protezione dei confine esterni di Schengen”. Alcuni attivisti – si scrive nell’articolo di Balkan Insight – sono preoccupati per un’escalation della violenza in caso di un ritorno massiccio dei flussi migratori: “Proprio come accade in Bulgaria, dove la polizia spara ai migranti”. Ma qual è il vero motivo della costruzione di un muro laddove ora non sembra esserci un’emergenza in entrata? Da un lato, si può rispondere con un’altra domanda: è proprio vero che in Slovenia la rotta è chiusa? Su questo – lo si ripete – non si hanno dati ufficiali, ma le fonti ipotizzano una circolazione illegale, principalmente legata all’azione dei passeurs. Dall’altro, il messaggio politico è chiaro ed è diretto all’Unione Europea: la Slovenia, così come l’Ungheria, la Serbia, la Bulgaria o la Macedonia (ma anche come la Gran Bretagna o la Francia), dimostrano il loro peso internazionale riaffermando a suon di azioni militari nelle zone di frontiera. Il muro è, cioè, non solo un efficace prodotto elettorale – generatore di voti e di ulteriori paure tra la popolazione slovena – ma è anche la dimostrazione che la politica estera contemporanea si basa ancora su dimostrazioni di forza, di controllo dei flussi, di contenimento della mobilità alle frontiere. La politica estera degli Stati sembra avere la natura di un insieme di risposte in nome della sicurezza e del contenimento confezionate come spettacolo elettorale. Non è vero, quindi, che in Europa non ci sono più i confini: i confini esistono e svolgono un ruolo politico fondamentale. I confini sono oggi un luogo estremamente politico, perché in essi si riafferma la forza, reale o di propaganda, dei governi degli Stati nazionali, le cui politiche si basano sul controllo militare delle proprie frontiere e della mobilità. Se, infatti, la Slovenia, in tempi rapidissimi, decide e realizza una serie di misure difensive, è più difficile pensare che la sua politica di protezione sociale dello Stato sia altrettanto all’avanguardia: basta dare un’occhiata alla denuncia da parte dei richiedenti asilo di condizioni di accoglienza precarie e di procedure eterne (Le Courrier des Balkans, 25 ottobre).
Sulla Croazia, proponiamo l’ascolto di questa trasmissione radiofonica che approfondisce il risultato delle elezioni politiche nel paese (Radio Capodistria in Osservatorio Balcani e Caucaso, 21 ottobre).
IN PRIMO PIANO: BABELE E “NOI”
Per sintetizzare, riassumiamo i fenomeni individuati.
- Il formarsi continuo di jungles, campi, rifugi informali nei luoghi di maggiore tensione (prima Idomeni, ora la Serbia settentrionale), la cui esistenza è scandita da un periodico susseguirsi di smantellamenti forzati e riproduzione della vita e dell’attesa in altri campi. I fatti ci dicono che gli smantellamenti e le azioni di polizia non risolvono il fenomeno: lo spostano e, spostandolo, lo Stato ottiene maggior riconoscimento elettorale.
- Il controllo militare dei confini e delle persone in mobilità, cioè l’utilizzo di azioni di forza in nome di uno “stato d’emergenza”, continua a rappresentare la principale politica migratoria degli Stati affacciati sulla rotta.
- La messa in sicurezza dei confini e il controllo dell’area Schengen rappresentano l’argomento principale usato in diplomazia da questi Stati contro l’Unione Europea. In gioco non c’è solamente la questione migratoria, ma anche una critica radicale dello stesso disegno europeo, che si basa sulla limitazione dell’azione degli Stati nazionali.
- Cresce un nuovo nazionalismo: un sentimento caratterizzato da messaggi di riappriazione di una sovranità perduta (soprattutto di fronte all’emergenza migratoria, poiché limitata o regolata da trattati internazionali come la Convenzione di Ginevra o la Carta dei Diritti dell’Uomo). Il nuovo nazionalismo si propone a difesa della Fede e della Razza, come testimoniano le manifestazioni in Bulgaria di “resistenza e difesa dei confini, della fede e delle donne”.
La questione che segue è la seguente: siamo sicuri che questi fenomeni appartengano solamente alla parte orientale della nostra Europa? In Francia c’è stato lo smantellamento di Calais, fatto che non è così diverso dagli smantellamenti continui ai confini balcanici. Ecco un riassunto e alcune opinioni.
23 ottobre (Libération): la jungle è invasa da giornalisti e fotografi, che attendono, l’inizio delle operazioni di sgombero. I migranti e volontari sono assediati dalla stampa. L’intento del governo è svuotare il campo in 10 giorni e offrire alloggio ai migranti (stimati attorno ai 6.500-8.000, arrivati a Calais per raggiungere la Gran Bretagna). Il progetto del potere pubblico è presentato come “humanitaire”, in nome di una presunta “sofferenza” dei migranti a causa delle condizioni di vita nella jungle (invece si sa che la jungle, a parte la precarietà delle condizioni di vita, è un luogo di speranza, di libero pensiero, di conversazioni e incontri tra persone in transito, volontari internazionali, giornalisti, scrittori). Tuttavia, ciò che complica questo progetto è l’impossibilità di promettere a tutte le 8.000 persone di ottenere l’asilo in Francia e quindi un alloggio (tra di essi, infatti, ci sono molti “dublinanti”, cioè coloro che secondo il Regolamento di Dublino dovrebbero essere rispediti forzatamente al primo paese europeo in cui sono giunti). Se non si è sicuri della capacità d’accoglienza, perché smantellare un campo affermando un intento umanitario? 24 ottobre (Libération): inizio delle azioni di sgombero.
Michel Agier, antropologo, riflette su quanto è accaduto, a cominciare dall’ambiguità del concetto di «intervento umanitario » – l’aiuto in nome della sofferenza umana che spesso rischia di trasformare in “vittime” delle persone che, al contrario, si definiscono “avventurieri” o che sono molto coscienti della propria situazione o del contesto politico in cui sono inseriti, e non vogliono essere trattati come “vittime” – e afferma che l’operazione del socialista Hollande non è un esempio di politica migratoria, ma una politica di sicurezza basata su una strategia elettorale. «Mentre le associazioni propongono da un anno e mezzo soluzioni senza mai essere ascoltate, tutto ha dovuto essere regolato in una settimana, senza una vera cooperazione con il mondo associativo».
Qual è, quindi, per l’antropologo, la lezione che possiamo trarre dall’esperienza di Calais e di tutte le jungle che esistono in altre rotte migratorie? Risponde Agier: «Della bidonville di Calais si parla spesso in termini di indegnitàn […]. Ma questa [esperienza] dà invece un’altra immagine di Babele. Infatti, non è l’immagine del caos o della cacofonia, come si potrebbe percepire dall’esterno, ma un luogo di formazione alla diversità, dove si scopre ciò che si vive, ciò che si fa, in un mondo pieno di frontiere. È principalmente questo il mondo che viene verso di noi, un mondo di cui gli abitanti sono sempre più mobili, e dove le identità e le culture sono decisamente più flessibili e mutevoli di quello che si può credere» (Libération, 27 ottobre).
[Nella foto: una scritta sul muro di un accampamento informale. Angela Lovat e Paola Tracogna, Serbia 2016]