Alla collega che verrà
di Francesca Carbone
Questa lettera è apparsa sul numero di dicembre della rivista Gli Asini, diretta da Goffredo Fofi. Francesca, nostra volontaria, ha lavorato presso una ong nell’accoglienza dei “minori stranieri non accompagnati” e ora si rivolge alla collega che prenderà il suo posto.
Cara collega,
fra qualche settimana forse prenderai il mio posto e perciò voglio raccontarti di questo lavoro.
Ti diranno che il tuo target sono i Minori stranieri non accompagnati, per gli addetti ai lavori Msna: quale dicitura più inappropriata per descrivere la varietà umana che incontrerai! Intanto, c’è da dire che il termine usato da loro stessi per definirsi è “bambino”, una parola che imparano già in Libia e che altro non è che una delle numerose identità da indossare, per scelta o per forza, nel corso del viaggio. Ti troverai a spiegare loro il perché di questo acronimo e parlerai dell’esigenza di tutela del Tribunale dei minori e della sua difficoltà nel nominare i tutori, sempre troppo in ritardo; oppure, ancora peggio, cercherai un appiglio in qualche dichiarazione universale, che parla di “fanciullo” e child protection, risalendo la storia del civilissimo Occidente. Ma ti basterà guardarti attorno per accorgerti che loro non sono bambini, ma giovani uomini e giovani donne e che il tuo compito, più che di proteggerli, è di renderli consapevoli dell’intricato sistema in cui sono capitati.
Ti stupirai almeno quanto loro, quando si renderanno conto che dichiararsi minorenni non è stata una scelta così strategica e scapperà pure qualche risata quando qualcuno condividerà la sua vera età, come quando Mamadou si rasava i capelli per nascondere la canizie. Altre volte, invece, ci sarà ben poco da ridere. Incontrerai qualche bambino vero, ma stai tranquilla che non passerà inosservato, perché intorno a lui si focalizzeranno così tante attenzioni da dimenticare, non sempre per errore, che magari non si tratta di un minore non accompagnato. Cosa importa se ha una mamma in un altro paese europeo, che piange al telefono per la paura che le vendano il figlio? La mamma c’è, ma non si vede. E questo basta al Tribunale dei minori per autorizzare l’affido pre-adottivo a una buona famiglia italiana.
All’inizio cercherai continuamente risposte, spiegazioni, giustificazioni per un sistema che è collassato prima ancora di essere avviato. “Perché non ho un tutore? Perché non ho ancora iniziato i documenti? Perché non mi trasferiscono? Perché qui non posso usare il cellulare? Perché non possiamo cucinare? Quando posso andare a scuola?” Troverai mille e una risposta, ma nessuna sarà mai abbastanza senza una riflessione che sia anche politica. Loro sono là, in attesa nei centri di prima accoglienza, che tutto sembrano fuorché luoghi di ospitalità, essendo piuttosto il prodotto collaterale delle politiche di ordine e sicurezza che abbiamo messo in atto per la gestione della mobilità umana. Sono spazi eterotopici direbbe Foucault, “al di fuori” e al limite della normalità, perché spesso anche fisicamente isolati e lontani dai centri abitati. Non-luoghi, in cui ogni possibile riconoscenza di uguaglianza civile o politica con i cittadini ordinari risulta sospesa e complicata dai ritardi amministrativi e dalle procedure per la richiesta dei documenti, rese volontariamente sempre più complesse e lasciate a discrezione delle singole questure. L’antropologo Michel Agier, li chiamerebbe “campi”, proprio come quelli sparsi in tutto il mondo, cioè una soluzione di governance degli indesiderati assai diffusa, una maniera per tenere al margine della società chi è di disturbo, chi è di troppo.
Eppure proprio in questi spazi, sotto controllo e marginali allo stesso tempo, può succedere qualcosa di meraviglioso, ma solo se si riesce a superare l’idea di avere a che fare con dei vulnerabili, con delle vittime impotenti di questo sistema. Accade allora che qualcuno prende la parola per dire la sua, per affermare se stesso contro ogni identità attribuita, o magari interpretando la stessa identità che gli è stata assegnata – di “vulnerabile”, “bambino”, “beneficiario”, “ospite”, “utente” –, come un attore. Magari lo fa con aggressività o con toni provocatori, oppure sfruttando la sua posizione di leadership nel gruppo, organizzando proteste o semplicemente fuggendo dai centri. “Finché là fuori ci trattano con razzismo, io non smetterò di odiare i bianchi che lavorano in questo centro”, “Forse hanno paura perché non hanno mai visto un nero”, “Parliamo della situazione dei migranti nel Mar Mediterraneo oggi?”, “Gli Europei sono tutti uguali, vengono nel nostro Paese solo per fotografare le case povere e i bambini vestiti di stracci e poi se ne vanno con quest’immagine sbagliata dell’Africa”, “Noi siamo qua perché gli europei sono venuti in Africa”. Brandelli di conversazioni, che parlano di relazioni di potere, di bianchi e di neri, di nuove forme di colonizzazione, di rabbia, delusione, meraviglia per qualcosa che doveva essere diverso. Non si può fare questo lavoro prescindendo dal discorso politico. Non ne uscirà nulla di buono se non si permette a queste persone – soggetti che prendono la parola, l’iniziativa e lo spazio – di turbarci, di sconvolgerci, di mettere in dubbio il nostro modo abituale di pensare.
In quanto operatore e professionista dell’intervento umanitario godrai di una posizione terza: non lavori per il governo, né per i centri di accoglienza e questo ti permette di instaurare una relazione particolare con i ragazzi, con più facilità di quanto non succeda a un operatore dell’accoglienza, incastrato fra obblighi educativi, regole a volte decontestualizzate e anacronistiche, disposizioni improbabili come quelle disciplinate dal decreto Minniti-Orlando. Non deve essere facile entrare in questo ruolo, ancora così poco definito, e ognuno si arrangia come può. In effetti, tra il personale dei centri di accoglienza si vede di tutto: sono molte le donne, neo-laureate, giovani spaventate che si chiudono a chiave in ufficio, psicologi aggressivi e impulsivi che non riescono a mediare il conflitto, educatori e “pedagogisti” (così si definiscono) impegnati nella missione di civilizzazione del buon selvaggio (“hai fatto la doccia oggi?”), operatrici completamente affascinate dall’esotico che instaurano relazioni preferenziali e sessualizzate, molti mediamente sprovvisti di strumenti linguistici adeguati e con scarse competenze transculturali. Il fatto è che, sebbene le migrazioni ci abbiano ridato delle buone prospettive lavorative, non ci si può reinventare operatori dell’accoglienza. O meglio non lo si può fare senza una riflessione continua su di noi, sul perché abbiamo scelto questo lavoro di aiuto e su cosa ci suscita nell’intimo.
Ti toccherà entrarci con tutte le scarpe (e non è solo un modo di dire), ti tireranno le orecchie e comincerai a perdere i capelli. Ti dovrai interrogare molto sul tuo posizionamento, come persona e come professionista: come operatrice dell’umanitario, come europea, come italiana, come bianca, come donna, anche come donna del sud con l’accento del nord che lavora in Sicilia, diciamolo. È molto faticoso, lo premetto, perché sperimenterai frustrazione, imbarazzo, inadeguatezza. Le ragazze nigeriane, per esempio, mi hanno messo in grossa difficoltà: non riuscivo a conquistare la loro stima in nessun modo, mi osservavano a distanza e mi costringevano a pormi mille e una domanda sul mio modo di essere donna. Che fatica! Con i ragazzi è diverso, la relazione si costruisce su altro, ma poi rimane il fatto che tu sei bianca ed europea e ci stai mettendo la faccia. Quante volte avrei voluto Minniti accanto a me, sotto il fuoco incrociato di sguardi delusi e arrabbiati!
Per fortuna non sarai mai da sola. Fai parte di una équipe che, anche se piccola perché di sole tre persone, sarà il tuo appoggio, il tuo rifugio, il tuo spazio di decompressione. Sono sicura che senza le mie preziose colleghe (una mediatrice e una psicologa) non sarei mai potuta crescere in questi mesi. L’interdisciplinarità vuol dire osservarsi nel lavorare insieme, prendere dalle altre professioni quegli strumenti che mancano alla propria, ispirarsi e saper fare un passo indietro quando serve, capirsi con uno sguardo e aprire paracadute in emergenza, confrontarsi sulle diverse esperienze, incrociare le informazioni, rifletterci sopra e, se non basta, parlarne con il supervisore. Potersi sentire stanca, preoccupata, triste, inadeguata, in ansia, eccitata, disorientata, senza timore di essere giudicata. Credimi, un’équipe che funziona può essere un’ottima profilassi contro il burn-out!
Tuttavia lavorare con una ong non è sempre una condizione ottimale, anzi. Da una parte la mission di assistenza dei vulnerabili, dall’altra la necessità di sopravvivenza come organizzazione; da un lato l’indipendenza dagli apparati governativi, dall’altro la volontà di accreditarsi agli occhi del governo. E tale desiderato sostegno non attiene solo a questioni economiche, ma riguarda anche la possibilità di una collaborazione concreta sui territori, la cosiddetta rete con i servizi pubblici esistenti. Certo con l’appoggio del prefetto è più facile lavorare sul campo: anche i centri di accoglienza sono costretti ad aprirti le porte e ad accettare la tua presenza al loro interno. Ma in un sistema di accoglienza in cui i limiti e le criticità sono spesso effetti a cascata di scelte scellerate fatte proprio dal Ministero, che ne è dell’indipendenza dell’organizzazione, della sua forza nel dare voce a chi subisce ingiustizie, delle sue azioni di pressione politica, se non proprio di denuncia? Ancor più in territori in cui il business della migrazione è chiaramente sotto lo sguardo di tutti, procure e forze dell’ordine comprese.
Non ti nego che questa condizione mi è pesata davvero molto. Eppure ho scelto di accettare questo compromesso pur di avere l’opportunità di sperimentarmi in questo lavoro. Se si esclude il volontariato, non sono molte le situazioni in cui ci si possa impegnare in una relazione d’aiuto con i migranti rimanendo al di fuori del sistema di accoglienza ufficiale e ancora più rare le occasioni di poter lavorare in Italia come antropologa all’interno di un dispositivo di ispirazione transculturale.
Alla luce di tutto questo, cara collega, ti auguro di poter goder appieno di questa esperienza. Ti lascio questa lettera come eredità affinché questo pezzo di esperienza non si perda, ma faccia cumulo con la tua e con quella di chi c’è e di chi verrà. Ti lascio anche lane e perline per i momenti in cui non saprai come guadagnar l’attenzione delle ragazze nigeriane, qualche articolo sulle frontiere nord dell’Italia e sul caporalato che tornano sempre utili quando un ragazzo cerca informazioni prima di riprendere il viaggio verso nord e un gessetto bianco che ti consiglio di far circolare in modo che rimanga fra le tue mani il meno possibile.
Se non ti dispiace io porterei con me gli sguardi, i sorrisi e anche le lacrime, qualche incazzatura e le urla delle nigeriane, i discorsi fiume, gli abbracci e le strette di mano.
[Fotografia di Marco Carmignan: “Un ragazzo, avvolto in una coperta per non congelarsi, aspetta in fila per una porzione di cibo.” Roma, gennaio 2017]