Bosnia - Giugno 2018

“Qui siamo in Bosnia, a noi non è concesso dimenticare…”

“Qui siamo in Bosnia, a noi non è concesso dimenticare…”

Anche se nella nostra Regione il flusso di richiedenti asilo provenienti dalla rotta balcanica è fortemente diminuito, questo non vuol dire che quella rotta sia chiusa e che la migrazione di migliaia di persone si sia improvvisamente arrestata.

Le persone continuano a muoversi scegliendo quella che credono la via migliore. Da più di due anni, le frontiere che circondano e che precedono il nostro Friuli, sono chiuse. Ma chiudere e militarizzare le frontiere, non ha significato altro che costringere la rotta a modificare il suo percorso e a creare zone di stallo, rendendo il viaggio di queste persone sempre più pericoloso e disumano.

Ospiti in Arrivo è andata a visitare una città della Bosnia, quella che oggi i bosniaci chiamano “l’imbuto della migrazione”.

 

Velika Kladuša

Passato il confine tra Croazia e Bosnia in direzione Velika Kladuša, la prima cosa che balza agli occhi sono le montagne, le colline, i campi, le pecore e le case piene zeppe di buchi di mitragliatrice sulle facciate. Dopo “tanti anni” questi buchi di mitragliatrice sulle facciate delle case sono ancora lì, è questo il primo pensiero che ti senti salire. Segni tangibili di un passato recente,  di cos’è stata a poche centinaia di chilometri da casa nostra la guerra nei Balcani.

Velika Kladuša è una città, piena di cani randagi innocui e socievoli ed è abitata da gente cordiale. Una città in cui si alterna la strada dissestata a un evidente inizio di ripresa edilizia privata.

Orientarsi nel percorso urbano non è facile, ma puoi contare sulla collaborazione degli abitanti che si spendono per disegnare mappe sul primo pezzo di carta trovato.

Si perché, le mappe sono più di una: si parla di 1200 rifugiati in una città di 44.770 abitanti. Un numero che, in verità, è solo una stima perché un vero monitoraggio quotidiano non esiste. D’altra parte, quello che sappiamo è che Velika Kladuša è solo una tappa di transito, dove non si resta più di tre o quattro mesi. Ognuno dei rifugiati possiede un foglio, rilasciato dalle autorità governative, che recita: “Sono a conoscenza del fatto che sei entrato in Bosnia”.

Dove vanno? Cercano di superare il confine croato. Il difficile è sapere il “dopo”, ci si deve accontentare di immaginare che chi non torna in Bosnia, è perché è arrivato da qualche parte.

 

Il campo profughi

Piove, piove tantissimo e le strade si riempiono come fiumi, le grondaie straripano, il fango è ovunque. Tra i campi di proprietà del Comune si è creato l’accampamento più grande, fatto di tende, cinque bagni chimici, alcuni rubinetti, un generatore e ancora fango. Questo è tutto quello che mette a disposizione il Comune.

Nel perimetro del campo (e in una parte della zona centrale), ci sono tende da campeggio di svariate forme e colori provenienti da donazioni spontanee dei residenti, solo qualche tenda fortunata ha un telo di plastica che la protegge più delle altre. In questo campo si stimano 700 persone di cui almeno 50 bambini.

Abbiamo conosciuto afgani che vogliono andare in Irlanda, pakistani che vogliono andare in Francia, siriani che vogliono raggiungere parenti in Germania, marocchini che vogliono venire in Italia, nigeriani che non sanno dove andare, ma anche bambini con malattie gravi, molte famiglie divise che vogliono ritrovarsi e uomini che sono stati feriti dalla polizia croata nel tentativo di proseguire il viaggio.

”Prima la polizia Croata portava in braccio i bambini, poi ha iniziato a picchiare, ma solo per spaventarli, ora invece picchia per far male. Abbiamo rischiato un conflitto tra Stati, con le due polizie una di fronte all’altra e i rifugiati nel mezzo, la polizia bosniaca non accettava il comportamento croato…”

 

Come si sopravvive in un campo “spontaneo”?

Avevamo notato che in moltissime case del paese, tra cespugli e sedie da giardino, sedevano piccoli gruppi di rifugiati. Qualche volta parlavano con una signora che puliva i fagioli, altre volte stavano seduti a parlare tra di loro. Non in una sola casa, ma in tantissime case. Abbiamo saputo poi, che oltre ad aprire i giardini, gli abitanti provvedono ogni giorno a portare beni di prima necessità e in molte case (con buchi di mitragliatrice sulle facciate) vengono ospitati per il periodo necessario.

Con  il dono spontaneo però non si può certo provvedere a tutti per tutte le necessità di base e capita di vedere un bambino alle prese con un lecca-lecca, che non ha cenato o che indossa una felpa di marca ma troppo grande, camminando sulle scarpe n.42

Una volta al giorno un’associazione consegna ad un numero di fortunati, un solo pasto confezionato in due piatti di plastica sovrapposti e infilati in un sacchetto insieme a nuove posate; quella plastica la trovi al bordo del fiume, lungo il ponte, sparsa tra le tende, mescolata ad abiti inutili e ad altre cose superflue.

A questo caos fatto con il cuore, si aggiungono volontari improvvisati che arrivano da ogni dove, Italia compresa e che pensando di fare la cosa giusta, aprono un bagagliaio di meraviglie che scatena l’inevitabile ressa. A poco serve la preziosa e gentile disponibilità della polizia locale che cerca di far capire che la modalità non è adeguata e tanto meno originale. Va da sè che nella ressa del bisogno, si afferra qualunque cosa, si litiga e si rinuncia.

Questo via vai pomeridiano “del cuore”, è la causa di un disagio che pare vada aumentando e preoccupando.

Per fortuna c’è A., un ragazzo bosniaco che, a breve, con una manciata di amici costituirà un’associazione. Per ora, a tempo pieno e volontario, provvede alla gestione di un magazzino, al fine di favorire una distribuzione sensata. Collabora con tre donne che si occupano di famiglie con bambini, compra chili di chiodi per costruire ripari, compra le medicine e crea un rapporto di collaborazione con i rifugiati.

Collabora con le associazioni “Are You Syrious” e “No Name Kitchen”, delle altre non si fida molto e dice di “non aver tempo da perdere”. Ha cucinato per i rifugiati in Grecia e in Germania, ma soprattutto dice:

“…a 16 anni ho dovuto imbracciare il fucile per difendere la mia vita, gran parte della mia famiglia è stata uccisa, io non ho paura di morire e non posso sopportare il dolore di questa gente, qui siamo in Bosnia, a noi non è concesso dimenticare!

A cinque minuti a piedi dal campo principale, sotto un albero puoi vedere un deltaplano a motore e a poca distanza l’hangar che lo conteneva, ma per far entrare 80 persone lui, il deltaplano costoso e fragile è dovuto uscire. Quando A. è andato a casa del proprietario per chiedergli in prestito il capannone, questo signore ha risposto “a me questi non piacciono per niente, ma bisogna pur aiutarli”.

 

Di queste 80 persone se ne occupano una ragazza spagnola e una canadese dell’associazione No Name Kitchen. Loro sono le responsabili delle docce e del “progetto lavanderia” che prevede, sebbene a giorni alterni visto il clima ingeneroso, la possibilità per donne e uomini di farsi la doccia fredda in quattro docce da giardino, collocate nel cortile di un ex macello abbandonato e pericolante. Ad ogni doccia, consegnano vestiti puliti, ritirano quelli sporchi che portano a casa, infilano il bucato nella lavatrice regalata da Medici Senza Frontiere e poi, stendono in soffitta , salotto, scale, ecc. ecc. Un via vai quotidiano sfiancante che non dimentica l’importanza della relazione: conoscono le persone, per nome e storia e le persone di loro si fidano. Al milione di richieste che ricevono, rispondono con fatti concreti solo quando sono certe che non nascondono il solo bisogno di attenzione umana.

Da ieri, per tre giorni la settimana è iniziato un nuovo progetto di Medici Senza Frontiere che oltre a dare assistenza medica provvede a mantenere le relazioni con l’ospedale per i casi più importanti.

Qui però i conti non tornano: 700 persone al campo al campo, 80 nel capannone…quanto manca per arrivare a 1200?

Quello che ci è dato di sapere è che almeno tre persone per ogni casa riescono ad ospitarle e se poi sei proprietario di una “vecchia casa con i buchi di mitragliatrice sulle facciate”, puoi farne stare molti di più.

 

Il nostro contributo

Al ragazzo bosniaco di cui raccontavamo sopra, rispondendo alla specifica esigenza, Ospiti In Arrivo ha comprato: 17 paia di scarpe, biancheria per bambine adolescenti, un gioco per un bambino particolare, quaderni e colori.

Al “progetto lavanderia”, su richiesta dei diretti interessati, abbiamo comprato: 60 calzini, 30 schiume da barba, 85 metri di telo di plastica, medicine specifiche per il cuore, 10 colle per aggiustare le scarpe, 4 rotoli di sacchi della spazzatura pesanti. Per svolgere attività educative abbiamo comprato un telo di plastica. Oltre a questo abbiamo donato sacchi a pelo, coperte, kit igienici e cibo energetico.

In pieno accordo con le due associazioni, a conclusione del nostro viaggio rivolgiamo un appello a tutte le Associazioni che vorranno raggiungere Velika Kladuša al fine di collaborare correttamente con questa situazione di crisi: le attività che possono contribuire al benessere delle persone sono le attività educative per bambini, mentre gli aiuti materiali DEVONO essere concordati PRIMA con chi qui quotidianamente è sul campo per rispondere alle esigenze specifiche.

 

 

Il ringraziamento più importante va ai bambini che senza farsi vedere, si sono presi tutti i pennarelli colorati. Tra mille cose che potevano prendere hanno riconosciuto lo strumento adatto per disegnare la meraviglia.

 

…e ringraziamo le nostre preziose volontarie: Claudia per la passione, l’esperienza e l’impegno, e Bisera, a suo tempo in fuga dalla guerra balcanica, che ha saputo parlare in infinite lingue, traducendo senza mai dare segno di stanchezza e che ha saputo gestire ad arte relazioni costruttive con ogni essere umano incontrato.