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Ripartirò stanotte per il “Game”…

Abbiamo visto questa rotta cambiare decine di volte. Negli anni abbiamo visto luoghi, volti, donne, uomini e bambini, confini e violenze. Abbiamo visto la stanchezza, la paura, la rabbia e la speranza di corpi ridotti a nulla, a numeri e liste. Abbiamo visto la fragilità e la vulnerabilità, la forza e la volontà. Abbiamo visto le stagioni cambiare, il sole, la pioggia, il fango, il vento e la neve. Le condizioni disumane, le partenze e i ritorni, le lacrime e le ferite.
Lungo la rotta bosniaca è iniziata oggi la stagione più temibile che non è solo quella dell’inverno balcanico, delle estreme condizioni di vita di centinaia di profughi e migranti bloccati ai confini, ma è quella che vede l’inizio della “criminalizzazione della solidarietà”.
Il copione ormai lo conosciamo. Ed è per questo che non smetteremo di raggiungere questi luoghi, riaffermando il valore della “solidarietà umana” e testimoniando la sistematica violazione dei diritti umani nella nostra Fortezza Europa.


L’inverno a Bihac
A Bihac è arrivato l’inverno e un manto di neve ricopre tutto. Quando arriviamo è ormai sera ed è buio. Facciamo in tempo a raggiungere il negozio dove abbiamo deciso di finanziare il “Progetto scarpe”, promosso dall’associazione S.O.S Team Kladuša. Grazie alle donazioni, raccolte durante le nostre serate di raccolta fondi a Udine, usciamo con circa 90 paia di scarponcini invernali nuovi. Basteranno per qualche giorno, ci dicono i volontari di Velika Kladuša. Nonostante le rigide temperature sotto lo zero, il flusso di persone in arrivo in Bosnia infatti non è mai cessato. Difficile fare stime. Secondo i dati ufficiali del governo bosniaco e dello IOM, dall’inizio dell’anno quasi 23.000 persone provenienti dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan, dalla Palestina, dal Bangladesh, dall’Iran, dall’Iraq, dallo Yemen e dal Maghreb sono entrate in Bosnia, ma di queste solo un migliaio hanno formalizzato la richiesta d’asilo. Un centinaio i rimpatri assistiti. In Bosnia è chiaro, nessuno si vuole fermare.
Fare stime degli arrivi giornalieri risulta ancora più difficile. Qui a Bihac, ad esempio, da alcuni mesi è iniziata una “politica di alleggerimento” dei flussi. Chi viene trovato sui treni, sugli autobus, sui taxi, viene respinto e rimandato a Sarajevo o abbandonato in mezzo al nulla. Fermarli prima è l’obiettivo. Dalla capitale poi si ripartirà, magari facendo la fortuna di trafficanti e “smugglers” per raggiungere nuovamente Bihac o Velika Kladuša. A questo ping-pong di esseri umani in cerca di protezione, vanno poi aggiunti coloro che ogni giorno partono e ritornano dal “Game”. Le violenze inaudite da parte della polizia croata, le pratiche di respingimento illegale che arrivano fino alle nostre frontiere non sono infatti mai cessate. Ed è pratica oramai diffusa al campo governativo di Bira salvaguardare il posto per qualche giorno dopo la partenza. In queste ultime settimane, inoltre, sono stati diversi gli interventi di squadre speciali per il recupero di migranti a rischio congelamento nei boschi attorno a Bihac.
Ufficialmente queste politiche di alleggerimento vengono giustificate dall’autorità politiche di Bihac con l’impossibilità di garantire a tutti un tetto e con la volontà di non avere morti sulla coscienza. D’altro canto, “la politica di ammassamento” delle persone, realizzata per non lasciare al gelo nessuno, sta creando non poche tensioni.

Dopo lo smantellamento e il trasferimento delle persone presenti all’ex casa dello studente Borici, l’edificio fatiscente che per mesi è stato il rifugio per centinaia di profughi e migranti, solo all’ex fabbrica Bira, campo governativo gestito da IOM, UNHCR in collaborazione la Croce Rossa e altre organizzazioni internazionali non governative, sono presenti tra le 1800 e le 2100 persone, di cui almeno un centinaio i minori stranieri non accompagnati e un numero imprecisato di famiglie con bambini. Inutile dire che, nonostante i tentativi di creare all’interno della fabbrica zone separate per i più vulnerabili, la condizione di vita è di assoluta promiscuità e di totale sovraffollamento con tutte le conseguenze che ne derivano. E’ di pochi giorni fa la notizia della morte di un minore di 16 anni all’interno del Bira per cause ancore ignote. Una notizia emersa solo a distanza di un mese, grazie alla segnalazione di alcuni ospiti ad alcune realtà del volontariato indipendente.


Famiglie, minori soli e persone vulnerabili sono poi ospitate temporaneamente all’Hotel Sedra – che ha una capienza di 420 posti – e presso altre strutture alberghiere, sempre gestite da IOM, UNHCR e altre organizzazioni non governative. Secondo quanto riferitoci da alcuni volontari della Croce Rossa, tutte queste persone saranno trasferite nuovamente al Borici non appena i lavori di ristrutturazione, avviati dopo lo smantellamento, saranno ultimati.
Difficile prevedere cosa accadrà tra qualche mese o solo tra qualche settimana. Per ora, quello che noi sappiamo è che qui, in Bosnia, le persone continuano ad arrivare e nessuno si vuole fermare.


Velika Kladuša e la “criminalizzazione della solidarietà”
Esattamente come a Bihac, anche a Velika Kladuša, le persone non hanno smesso di arrivare. Dopo le proteste ai confini e lo smantellamento della “palude”, la tendopoli informale che per mesi ha ospitato centinaia di migranti, tra le 400 e le 700 persone sono oggi accolte nell’ex fabbrica Miral. Difficile sapere quanti minori soli e famiglie sono presenti. Anche qui a gestire il campo c’è lo IOM e l’UNHCR in collaborazione con alcune organizzazioni non governative. Ma si sa, un tetto non equivale a dignità: promiscuità, sovraffollamento, etnie diverse, frustrazioni e vulnerabilità, inattività e passività, di giorno in giorno non fanno che aumentare la tensione e rendere la convivenza e la vita di queste persone sempre più difficile e tesa. E’ così che in molti, nel limbo in cui sono costretti, nell’attesa del giorno giusto per partire, continuano a cercare rifugio altrove, in edifici dismessi o luoghi informali, o ad accettare ancora la solidarietà di semplici cittadini bosniaci nonostante i rischi in cui possono incorrere.


Anche in Bosnia è infatti iniziata la “criminalizzazione della solidarietà”. Offrire solo un thè o una doccia a un profugo all’interno della propria casa può costare oggi fino a 2000 euro di multa. Per non parlare poi dei “fogli di via” che hanno iniziato a fioccare a numerosi volontari appartenenti ad alcune associazioni indipendenti che da mesi stanno continuando a dedicare le loro vite gratuitamente per rendere la vita di migliaia di profughi e migranti meno dolorosa e più umana possibile. E’ un copione che abbiamo già visto, da Belgrado a Ventimiglia, fino ad arrivare a Calais. Ma qui siamo in Bosnia e girarsi dall’altra, far finta di non vedere, non è possibile. Qui, tutti sanno cosa significa essere dei profughi. Ed è per questo che, nonostante le tensioni, le criticità, la disperazione che spesso si traduce in comportamenti antisociali, sono pochi i bosniaci che hanno deciso di cedere alle intimidazioni.
“No body die of hunger during the war – and no body will die of hunger now”, recita il cartello appeso all’interno del ristorante dove ogni giorno vengono offerti gratuitamente più di 300 pasti e dove i migranti possono trovare un’assistenza materiale attraverso il Free Shop gestito dai volontari di S.O.S Team Kladuša. Stessi volontari che sempre in questi spazi quotidianamente hanno imparato a curare le ferite di chi torna dal “game”. Altrove c’è chi ha deciso di dare in autogestione le proprie attività con l’unico intento di far sentire queste persone vive e con una dignità.
In questi luoghi trascorriamo le nostre ultime ore, raccogliendo ancora una volta storie di violenza e di diritti violati, storie di speranza e di solidarietà. Come quella di A., un ragazzo afghano di 22 anni, uno dei tanti che ha scelto di non stare all’interno del Miral. Attorno a un fuoco e a un chai ci racconta la sua storia. Aveva 14 anni quando è partito dall’Afghanistan a piedi. Un anno dopo ce l’ha fatta ad arrivare in Austria, ma qui, una volta compiuto i 18 anni, senza mai aver visto processata la sua richiesta d’asilo e sulla base del Decreto Dublino è stato prelevato dalle autorità di polizia austriache durante la notte e deportato in Bulgaria, dove senza aver commesso alcun reato, è stato detenuto per otto mesi. Otto mesi senza aver compiuto alcun reato, in totale violazione del diritto internazionale. Da qui, una volta uscito, è rientrato in Afghanistan. Ma qui la sua vita è stata posta nuovamente davanti a un bivio: attendere la morte sotto le bombe della coalizione internazionale e gli attacchi dei talebani o fuggire una seconda volta. E così è ripartito lungo le vie antiche che portano all’Europa. Ce l’aveva quasi fatta ad entrare in Europa, ci dice. Ma alla frontiera italiana, nonostante avesse manifestato la volontà di chiedere asilo, è stato riammesso in Slovenia e da qui in Croazia e poi in Bosnia. “Sono stanco di fare questa vita. Sono sette anni che faccio questa vita. Ma stanotte ripartirò per il game …”.


“Inshallah”, amico.


Questi uomini, donne, bambini, in fuga dai propri Paesi, bloccati e bastonati ai confini, nascosti nei boschi tra le mine antiuomo, gli orsi e i lupi o costretti a pagare migliaia di euro a qualche trafficante per raggiungere la “culla della civiltà”, sono le vittimi delle pagine più buie del nostro tempo, della nostra Fortezza Europa e della nostra storia.


Noi di questa Storia non saremo mai complici.