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Riflessioni confinanti di un volontario imbranato.

Velika Kladusa, Settembre 2019.

Mi sono avvicinato a Ospiti in Arrivo in un momento particolare della mia vita. La motivazione, priva di un sostegno di specifica preparazione, di uno che ancora non si destreggia nel mare di acronimi e di tecnicita’ che denotano i “veri” volontari, quelle e quelli in grado di dare una mano concreta e consapevole, e’ stata un vago sentimento “umanitario e di sinistra”, la voglia di “far qualcosa”.

Senza saper fare niente, una mano in magazzino, un vago senso di vicinanza ma anche di spaesamento al Misskappa, Gigi che guida il furgone, poi il fierissimo papa’ di Anita, di cui continuo a ripetere, come fosse anche un po’ merito mio, che “insegna italiano ai rifugiati”. Gigi che la mattina prima del lavoro in studio cerca notizie di stampa e le posta sulla pagina FB di Ospiti. La simpatia e il calore di una comunita’, l’idea di “far qualcosa dalla parte giusta”. La difficolta’ e lo stimolo di parlare di queste cose con le “altre” persone, nel mondo del mio lavoro per esempio, lontano anni luce da questi temi.

Poi mi coinvolgo e vengo coinvolto nel viaggio a Velika Kladusa. Inizio ad aspettare con sentimenti diversi il viaggio. Ci scriviamo, prepariamo, poi partiamo, macchina carica di giocattoli, pacchi/aiuto, persone, idee, risate e riflessioni. Durante il viaggio la narrazione di queste donne che mi accompagnano, che ancora una volta mi fanno riflettere su quanto davvero loro hanno una, due, tre marce in piu’ rispetto agli uomini, di quanto accogliente e comprensiva sia l’anima femminile. Durante la strada piano piano il panorama interiore ed esterno diventa Italia, Slovenia, Croazia e poi Bosnia. Passo dal mio letto, da casa mia, dal mio mondo, piano piano ad un muro crivellato dai proiettili vicino ad un parcheggio, e nella mente il ricordo dei racconti di Bisera sulla sua terra, di ritorno da Monaco. Poi sono a Velika Kladusa, dove Ospiti e’ partita. L’asilo, la maestra Zehida, occhi scuri, un potente abbraccio, non capisco le parole, ma le sento come poche cose in vita mia. Poi un rutilante vortice di idiomi diversi, il rifugio traballante di uno stentato inglese che con un po’ di ritrovata giovanile faccia tosta mi permette di scambiare qualche concetto con un dolente e vulcanico folletto, Pixi, che ci mitraglia di racconti, contraddizioni e sigarette. Piu’ di quattro anni qui hanno un effetto moltiplicatore di molto bene e altrettanto male. E i profughi, in strada, nei campi, al Miral, con le sue file di contenitori metallici di persone, con le sue guardie, con i suoi cancelli, e con i campi di fronte, dove dormono quelli per i quali un posto come il Miral e’ comunque un traguardo. E gli acronimi, I.O.M. e altri, asettici nascondigli di dolore. No Name Kitchen, pasti, docce, vestiti, tutto se si puo’, quando si puo’, quando c’e’.

Il Game, da noi sarebbe un videogioco, o un reality televisivo buono per anestetizzare masse di consumatori. Qui e’ provare a passare di notte la frontiera bosniaco/ croata, venendo il piu’ delle volte respinti, picchiati, privati di scarpe e telefonini. I segni sul corpo dell’esercizio di un diritto elementare, lo spostamento, la migrazione, che a un poeta richiamerebbe un volo di uccelli. Qui si traduce in cicatrici, fratture, lividi, esterni ed interni. I racconti terribili delle condizioni di partenza, dei viaggi, dei familiari e dei compagni persi, e di speranza struggente. Penso ai concetti tanto discussi di libera circolazione di persone e merci, e alle cose che diamo per scontate. Penso al reato di immigrazione clandestina, cercando di tradurlo in un assurdo giuridico, come “reato di libero andare per il mondo”.

Penso ai racconti che via via sto ascoltando, e traduco il tutto associandolo a me, Cinzia, con Anita e Michele bambini, e come avrebbe potuto essere lo strappo dell’anima di andar via da casa nostra, alla paura, al rischio, alla fatica estrema, alla possibilita’ di essere divisi lungo il cammino. Tutto cio’ integra una fattispecie di reato. Penso a qualche concetto di filosofia del diritto che ho letto, su cui ho ragionato, e non mi torna niente di niente. Abbiamo con noi i soldi, andiamo a fare compere, scarpe, calzini, mutande, cibo, medicinali. Le consegnamo ai volontari che operano sul posto. Lingue diverse, stesso sorriso.

Anche sul semplice fare la spesa non posso fare a meno di pensare che le donne hanno varie marce in piu’. Poi mi ricordo che io sono Gigi, e il mio compito e’ guidare , e mi rilasso.

E’ bello essere Gigi il driver, penso sorridendo.

Si, sono Gigi il driver, e ho il cuore caldo.

Come non accadeva da un po’.